Tra le corsie del Regina Margherita, Filomena Grisorio accoglie, ascolta e crea legami: un lavoro silenzioso che restituisce fiducia ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. In un luogo dove la malattia sembra sospendere il tempo, Filomena Grisorio costruisce ponti: tra bambini e genitori, tra ospedale e scuola, tra dolore e normalità. Educatrice dell’UGI, da oltre due anni accompagna piccoli pazienti e famiglie in un percorso complesso, fatto di terapie e attese, ma anche di gioco, creatività e relazioni che restituiscono vita e fiducia. Educatrice di formazione, Filomena si è avvicinata a UGI sette anni fa come volontaria. «Un’amica che aveva dovuto affrontare un percorso per il figlio in ospedale mi aveva parlato dell’importanza dei volontari — racconta —. E poi, quando si è aperta la possibilità di entrare come figura professionale, mi sono candidata». La scelta non è stata casuale. Filomena sapeva che il reparto oncologico richiede un sostegno “a 360 gradi”: «Sono percorsi lunghi, che mettono a dura prova l’equilibrio di tutta la famiglia. Volevo essere parte di quel supporto quotidiano che permette ai genitori di respirare e ai bambini di restare bambini».
La sua giornata inizia al mattino nei reparti di ambulatorio e day hospital, dove i bambini arrivano per controlli o terapie giornaliere. Qui l’attività principale è l’accoglienza: «Cerchiamo di creare un clima sereno, di spiegare chi siamo, di dare ai genitori tutte le informazioni utili». Nel pomeriggio, invece, Filomena si sposta nei reparti di degenza, dove organizza laboratori e momenti ludici. «Le attività non sono mai casuali: pittura, costruzioni, giochi di memoria… tutto è pensato per stimolare la creatività e le capacità cognitive, ma soprattutto per favorire la relazione».
Ogni intervento è progettato in collaborazione con le maestre e le psiconcologhe dell’ospedale, per adattarsi alle diverse età, condizioni cliniche e fasi emotive dei piccoli pazienti. Importantissimo, poi, è il confronto settimanale con l’equipe educativa di UGI. Il sostegno non riguarda solo i bambini. Spesso Filomena si prende cura anche dei genitori, offrendo loro momenti di pausa durante le lunghe giornate di ricovero. «A volte basta mezz’ora per permettere a una mamma di scendere a prendere un caffè o fare una commissione. È un piccolo gesto, ma ha un grande valore». UGI, inoltre, promuove attività dedicate ai fratelli dei bambini in cura, spesso “dimenticati” nelle dinamiche familiari della malattia. «Progettiamo gite, laboratori e incontri anche per loro — spiega —, perché fanno parte del nucleo e vivono anch’essi il peso della malattia».
Il lavoro educativo in ospedale è un mosaico costruito insieme a molte figure. Filomena collabora quotidianamente con le maestre della scuola in ospedale, dalle insegnanti del nido fino alle elementari. «I lunghi ricoveri possono generare ritardi nello sviluppo o nelle relazioni con i coetanei. Con le insegnanti ci confrontiamo spesso per capire come intervenire e mantenere attivo il legame con la scuola». A questa rete si aggiungono i musei di Torino, che portano all’interno dell’ospedale laboratori creativi e attività culturali. «Ogni esperienza esterna diventa occasione di crescita e scoperta, anche per i bambini che non possono uscire».
Non sempre però l’intervento educativo coincide con il “fare”. A volte serve solo esserci. «Ci sono momenti in cui i bambini non hanno voglia di giocare o i genitori sono troppo provati. Allora basta una chiacchiera leggera, un saluto, un sorriso. L’importante è che sappiano che ci siamo, e che possono contare su di noi». Questa capacità di ascolto e di attesa, spiega Filomena, è una delle lezioni più importanti apprese in ospedale: «Ho imparato che non serve sempre agire. La relazione cresce anche nei silenzi».
Parallelamente al lavoro in reparto, Filomena continua la sua formazione personale. Sta seguendo corsi sulla play therapy e UGI, dal canto suo, offre formazione costante e supporto psicologico ai suoi operatori. «È un lavoro emotivamente intenso. Entriamo nella vita delle famiglie, e dobbiamo imparare a mantenere quella “giusta distanza” che permette di essere empatici senza farsi travolgere».
Ogni tanto, quando una giornata è più difficile di altre, Filomena ripensa a una lettera ricevuta da una mamma: «Mi scrisse che la mia presenza aveva reso più leggeri alcuni momenti del ricovero. Quelle parole mi ricordano perché faccio questo lavoro».
