Era il 2004, frequentavo la quinta elementare, e in un attimo tutto è cambiato. I miei giorni non erano più scanditi dal suono della campanella, dalle voci dei compagni o dai giochi in cortile, ma dal ritmo delle flebo, dai controlli medici e dai silenzi delle stanze d’ospedale. Per un bambino, la malattia è uno strappo improvviso: ti ruba la quotidianità, ti isola, ti mette in una dimensione sospesa. In quel mondo dove tutto sembrava essersi fermato, è arrivata una presenza che non mi sarei mai aspettato: la scuola ospedaliera.
Gli insegnanti entravano in reparto con libri, quaderni e sorrisi. Non portavano solo lezioni, portavano normalità. Bastava una spiegazione di matematica o una lettura condivisa per farmi sentire ancora parte della mia classe, anche se fisicamente ero lontano. In quei momenti non ero solo un paziente: ero di nuovo uno studente, un bambino con i suoi sogni. La mia storia, però, non si è fermata lì.
Nel 2006, a dodici anni, la malattia è tornata. Ho dovuto affrontare una ricaduta che mi ha tenuto a lungo in ospedale, tra la seconda e la terza media. Ho frequentato gran parte di quel percorso al Regina Margherita di Torino, sostenendo persino l’esame di terza media tra quelle mura. È lì che ho compreso fino in fondo quanto la scuola ospedaliera fosse più di un supporto: era un faro acceso dentro un porto sicuro.
Non dimenticherò mai la saletta della scuola ospedaliera. Non era una semplice aula: era un luogo vivo, pieno di possibilità. È proprio lì che ho incontrato per la prima volta la musica. C’era un pianoforte, e quasi per gioco ho iniziato a suonarlo. Tasto dopo tasto, accordo dopo accordo, ho scoperto che la musica poteva diventare un rifugio, una via di fuga dalla malattia. Ogni melodia era un respiro, ogni nota una piccola vittoria. La musica mi ha insegnato che, anche nei momenti più duri, esiste sempre un linguaggio capace di dare leggerezza. Ma non c’è stata solo la musica. Tra quelle lezioni speciali, è nata anche una passione destinata a diventare il centro della mia vita: l’informatica. Alcuni insegnanti hanno acceso la mia curiosità, mi hanno incoraggiato a fare domande, a guardare oltre. È stata una scintilla che non si è più spenta: mi ha accompagnato durante le superiori e mi ha portato, anni dopo, a laurearmi in Ingegneria Informatica. Guardando indietro, so che senza quella finestra aperta in ospedale forse non avrei trovato la mia strada.
La scuola ospedaliera, però, non è stata solo un modo per recuperare il programma. Per me è stata un vero e proprio potenziamento. La malattia mi aveva costretto a fermarmi, ma la scuola mi ha permesso di riallinearmi con i miei compagni e, in alcuni momenti, persino di andare oltre. Le lezioni erano cucite su misura per me, adattate alle mie energie e ai miei tempi. Questo mi ha insegnato a studiare in modo diverso: a non rincorrere gli altri, ma a scoprire il mio ritmo. Quando sono tornato in classe, in prima superiore, mi sentivo sorprendentemente avanti. Non solo a livello di conoscenze, ma soprattutto nel metodo di studio. Ero più organizzato, più consapevole delle mie capacità, e soprattutto avevo imparato una cosa fondamentale: ascoltarmi. Capire come apprendo, quali strategie funzionano per me, come trasformare lo studio in un percorso personale e non in una corsa contro il tempo.
La scuola ospedaliera mi ha dato la possibilità di esplorarmi e capirmi, di costruire un metodo tutto mio. Quell’esperienza ha fatto davvero la differenza. Mi ha insegnato che la conoscenza non è solo sapere le nozioni, ma è uno strumento di libertà. Mi ha mostrato il valore della costanza, della forza e del sacrificio, non come concetti astratti, ma come compagni di viaggio indispensabili per superare le prove più dure.
Per i miei genitori, vedermi studiare in ospedale è stato un sollievo: significava che la malattia non stava portando via tutto. Significava che la mia infanzia, pur segnata, non era cancellata, e che i miei sogni continuavano a vivere. Per me, ogni pagina letta, ogni esercizio svolto, era un segno che la vita non si era fermata del tutto. Oggi, a distanza di anni, guardo a quell’esperienza con gratitudine. So che la scuola ospedaliera non è soltanto un servizio educativo: è un dono prezioso, è respiro, speranza, identità. È la dimostrazione che il diritto allo studio non conosce barriere, nemmeno quelle di un ospedale. È la prova che la conoscenza può diventare una cura invisibile, capace di dare senso e luce anche nei momenti più bui.
La scuola in ospedale è stata il mio motore silenzioso, quello che mi ha permesso di recuperare la vita che la malattia aveva provato a fermare. Non solo per restare al passo, ma per andare avanti, più lontano di quanto avrei immaginato. Per me ha fatto la differenza. Per tanti bambini e ragazzi, continua a farla ogni giorno.